LA VITTORIA E IL LUTTO

Con la firma dell’armistizio da parte dell’Austria-Ungheria a Villa Giusti il 3 novembre 1918 e la resa tedesca dell’11 novembre si chiudeva la Grande guerra. Vittoriosa per le potenze occidentali e per l’Italia, ma foriera di immani tragedie sociali ed economiche in tutta Europa. L’esperienza bellica lasciava infatti un bilancio complessivo altamente drammatico; quasi 10 milioni di caduti in Europa e una cifra doppia di feriti e menomati, a cui si devono aggiungere i morti per la pandemia di spagnola (più di 10 milioni). Nel suicidio europeo, la guerra italiana e “milanese” presenta cifre, in proporzione, altrettanto tragiche. Tra gli oltre 600.000 caduti italiani, i milanesi periti in guerra furono oltre 10.000 (24.000 nella provincia e più di 80.000 in tutta la Lombardia).

Un’intera generazione di giovani (l’età media dei caduti italiani era di circa 26 anni) era stata perduta in guerra in combattimento o per malattia o in prigionia oppure per “semplice” incidente. E con la loro scomparsa la società italiana dovette affrontare non solo la difficilissima elaborazione del lutto, ma anche l’emergenza sociale delle vedove, degli orfani e dei genitori rimasti spesso senza alcun sostegno economico.A queste categorie di sfortunati cittadini (a livello nazionale 200.000 furono le vedove e 300.000 gli orfani di guerra) la società civile milanese e la Giunta socialista cercarono anche dopo il 4 novembre 1918 di offrire adeguata assistenza. In questo frangente di orgoglio per la vittoria ma pur sempre tragico per molte famiglie, Milano diede prova di una notevole capacità di solidarietà sociale. Come nel caso della Lega di assistenza tra le madri dei caduti, fondata dalla scrittrice Anna Franchi nel 1917, (trasformata poi nella Associazione nazionale madri, vedove e famiglie dei caduti e dispersi in guerra) che si sforzò di offrire ogni aiuto materiale e morale alle donne che avevano perso figli nel corso del conflitto.

O come nel caso dell’Ufficio Notizie che dal 1916 operava anche a Milano per raccogliere le informazioni relative ai militari morti, feriti o prigionieri e trasmetterle alle famiglie. L’assistenza e la solidarietà, pubblica e privata, furono essenziali per alleviare le sofferenze e i disagi dei cittadini, ma a “dare senso” alla “apocalisse” bellica furono soprattutto i molti luoghi della memoria che Milano – come altre città italiane – dedicò a partire dagli anni di guerra e poi ancora nei decenni successivi al sacrificio dei milanesi.

Ancora una volta l’azione delle istituzioni comunali si combinò con l’iniziativa dei molti comitati cittadini che, in nome ora dei valori patriottici sanciti dalla vittoria ora dei principi internazionalisti e pacifisti, promossero la posa di lapidi, la costruzione di monumenti, la titolazione di vie e piazze a uomini e luoghi della Grande guerra. La messa a regime della memoria della vittoria operata dal fascismo, culminata a Milano con l’inaugurazione del Sacrario dei caduti milanesi (o Tempio della Vittoria) nel 1928, secondo il canone del “dulce et decorum est pro patria mori”, non ha del tutto cancellato le tracce della sofferenza dei molti genitori, figli, mogli o amici che nelle lapidi per esempio del Monumentale di Milano o nei luoghi delle battaglie presenti nei toponimi della città hanno per decenni ricordato la morte dei cittadini milanesi.

Il dopoguerra a Milano

Sin dalle prime settimane dopo l’armistizio subito gravi appaiono le conseguenze economiche e sociali della guerra. Come in altri Paesi belligeranti, l’Italia e Milano mostrano le enormi difficoltà prodotte dal conflitto nei bilanci statali e nella produzione industriale che, oltre alla crisi dei settori legati alla vita in tempo di pace, avrebbe ben presto visto la difficile conversione dell’industriale pesante, cioè quella più coinvolta nella mobilitazione bellica.

Ancora prima del ritorno dei reduci di guerra, sotto il profilo occupazionale il quadro sociale della transizione italiana e milanese si presenta alquanto problematico, a cui si aggiungono le sofferenze delle campagne e della produzione agricola. Ma è soprattutto dal punto di vista politico che il lascito della guerra si manifesta in tutta la sua drammaticità. E Milano, da palcoscenico della vita politica nazionale sin dal 1914, si offre ancora una volta come il centro nevralgico dei nodi mai risolti della partecipazione italiana alla guerra. È qui infatti che si ripropone lo scontro tra interventisti e neutralisti. La conclusione del conflitto non ha sanato le fratture del “maggio radioso” tanto che la piazza milanese deve registrare episodi di violenza talvolta più gravi di quelli di tre anni prima. Anche all’interno del variegato fronte favorevole al conflitto le latenti contrapposizioni politiche (a stento sopite negli anni della guerra) esplodono. Tra la guerra “democratica” e mazziniana di Leonida Bissolati e quella immaginata – di vera e propria rigenerazione patriottica – dai nazionalisti e dai gruppi di varia provenienza politica (sindacalisti rivoluzionari, ex-socialisti, anarco-interventisti) che vanno aggregandosi attorno alla figura di Benito Mussolini, non c’è possibilità di dialogo o sintesi politica.

Con la trionfale visita in Italia e a Milano del presidente Woodrow Wilson, che con i suoi “quattordici punti” tante speranze aveva e avrebbe ancora suscitato in Europa, si chiude l’illusione italiana di un ritorno alla pace politica e sociale. Solo pochi giorni più tardi, la brutale interruzione del discorso di Bissolati alla Scala ad opera dei nazionalisti e dei gruppi vicini a Mussolini inaugura una stagione nuova e drammatica per l’Italia e per l’Europa. E per Milano. Nella città amministrata dalla Giunta socialista di Emilio Caldara (confermata nel 1920 alle elezioni amministrative, ricevendo anche il plauso degli ambienti moderati per il contegno avuto durante il conflitto), si apre il lungo e drammatico capitolo del fascismo, fondato in piazza San Sepolcro solo poche settimane dopo i fatti della Scala, il 23 marzo 1919.

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